Francesco tra eresia e profezia di Padre Aldo Bergamaschi
Un sorprendente viaggio attraverso fatti e parole del santo per coglierne i messaggi filosofici e i contenuti pedagogici
Fermo restando che non s è mai finito di esplorare il pianeta Francesco, vorremmo tentare una sintesi e della sua “filosofia” e della sua “pedagogia” così come si configurano all’interno di una civiltà che in nome delle proprie certezze dogmatiche ha osato uccidere il dissenziente e sterilizzare il consenziente.
Francesco comincia coi dichiararsi “idiota” nel senso greco della parola. Si estranea sì dalla vita politica, vuoi sacra vuoi profana, e tuttavia non per coltivare il proprio “particolare”, bensì per tentarne la salvezza.
E come Socrate, il quale preferisce educare Atene a diventare “altra” anziché governarla così com è, Francesco rilancia nella cristianità l imitazione di Cristo e l attuazione del suo Messaggio, mettendo in ombra il suo culto.
E il Messaggio è udito in diretta, senza mediazioni storiche o linguistiche, per via intuitiva e volontaristica. Socrate aveva il demone come suggeritore, Francesco il Cristo dei Vangeli.
Il fatalismo della religiosità medioevale fu scosso, crediamo, da questo strano predicatore che con la sola “predicazione morale” e senza proclamare con puntigliosa insistenza il Vangelo lo mostra attuato nei suoi comportamenti, riaccendendo la speranza di un possibile ribaltamento istituzionale.
Gli spiriti più illuminati videro nel suo movimento la realizzazione della terza età dello Spirito in cui cade lo strapotere dei chierici e si prosciuga la piovra del gerarchismo ecclesiastico.
Francesco fa rivivere Cristo nei cuori dove era morto come “persona vivente” e dove era presente come sola realtà “sacramentale”. Non fu sacerdote e neanche diacono, ma soltanto chierico honoris causa. Rilancia la “salvezza della fede” nel senso che tenta di riagganciare l etica cristiana a colui che la fonda e cioè al “Fuori sistema” o “Altissimo”.
La chiesa reale è rispettata ma non è presa come fonte primaria della morale pratica nei settori vitali della convivenza.
Si potrebbe dire che Francesco è un figlio “vedente” nato da madre “cieca”. Egli ama la sua genitrice terrena, ma non può seguirla in tutto ciò che essa comanda.
Leggendo il Testamento si ha l impressione di trovarsi di fronte a un prigioniero politico. L Altissimo, mediante il Figlio, è il suo vero educatore ed è Lui che lo sollecita a uscire da tutto quel “mondo”; e pur dandogli fede nel sacerdozio istituzionale lo colloca in una zona intermedia, da cui potrà ritentare la divaricazione fra storia e verità.
Francesco che chiede il permesso di praticare il Vangelo a una chiesa che è convinta di esserne la custode gelosa e l interprete inappellabile, inventa la più sublime delle ironie. Mentre Innocenzo III si autoproclama “Vicario di Cristo”; Francesco – appunto perché si definisce “idiota e suddito di tutti” – sarà chiamato “Alter Christus” dal popolo cristiano.
Egli, infatti, vede nella storia il luogo della fratellanza da costruire col martirio, con la rinuncia, con la testimonianza e non con la crociata o con il rogo. Nel sogno di Spoleto (1205) una voce ferma Francesco e gli impedisce di cadere nel precipizio della civiltà veterotestamentaria, costruita sulla elezione di un popolo e dunque sulla definizione di Cristo come “capitano di eserciti”.
La voce lo ferma ponendogli l alternativa fra il servizio del Padrone (Dio) e il servizio dei servo (Papa). A Spoleto, insomma, riemerge contestualmente alla caduta dell etnocentrismo, l universalismo cristiano che non prevede né patrie, né popoli, né nazioni; ma soltanto dei “fratelli”, annullando così le cause “teologiche” della guerra.
Se il Cantico contiene il momento teologico della sua castità cosmica – che consiste nel vedere il mondo con i propri occhi sì, ma coi pensiero di Dio per mettersi al riparo da letture freudiane o leopardiane – l incontro con il lupo di Gubbio contiene la lettura cristiana del “conflitto sociale”. Natura e storia non possono identificarsi e l uomo non è nella storia così come i pesci sono nel mare. Francesco non riconduce uno sbandato nella città dei galantuomini; ma, dopo aver purificato l etica di due “delinquenze” – mettendole a confronto con il Messaggio – ne rende possibile la convivenza dentro a una città rinnovata.
La pace sanfrancescana non si ottiene con una “vittoria” o con una resa, ma con una convergenza di metànoia. In questa luce vanno letti e l opera di pacificazione tra il Vescovo e il Podestà di Assisi e il tentato dialogo di Francesco con l Islam.
Ma il vertice della filosofia sociale di Francesco è tutto nello sposalizio con Madonna povertà. E tuttavia la sua povertà non si identifica con la povertà dei “poveri storici”, né la sua mendicità è dovuta a emarginazione sociale.
L una e l altra sono scelta e progetto, relazionati alla costruzione di una chiesa in cui il chierico non deve detenere classisticamente, e in nome della fede, la sicurezza economica e il dominio politico.
La povertà di Francesco è la rottura dello schema medioevale della società tripartita perché essendo figli di metànoia non metterà mai sul conto di un “diritto sacro” la “mensa del Signore” o l opus religionis.
E la “mensa del Signore” cui Francesco si riferisce è subordinata al “lavoro onesto” e significa il consenso della condenda fraternitas christianorum. In altre parole: la povertà sanfrancescana è un volontario e gioioso limite al consumo dopo aver distribuito, secondo la legge dei vasi comunicanti, il prodotto dei lavoro svolto in riga e secondo i talenti ricevuti.
Il principio sovrano dell etica sociale che Francesco deriva dal Vangelo è il seguente: ciò che abbiamo non è nostro, lo abbiamo soltanto in prestito e fino a quando non troviamo sulla nostra strada uno più bisognoso di noi.
Francesco è l unico santo della chiesa cattolica che rifiuta l uso del danaro per assimilarsi totalmente ai discepoli mandati da Cristo in missione.
Mammona resta, comunque, il male supremo perché rappresenta la trasformazione di un mezzo – il danaro – in una divinità. E tuttavia Francesco non rifiuta né l uso della Porziuncola né l uso della Verna; a significare che l uso della proprietà – e quindi la sua funzione sociale – è coessenziale allo sviluppo della persona e deve eo ipso essere estesa a tutti.
La terza specificità della filosofia sanfrancescana è l obbedienza totale allo Spirito, non alla religione, come ha dimostrato di aver frainteso la ratio illuministica. Francesco, infatti, ha valicato i confini della tradizione e delle ragioni di qualsiasi magistero storico.
Nella Lettera a tutti gli abitanti della terra (l enciclica di un idiota!) dice che il vero cristiano non obbedisce ad alcuna autorità storica, esterna alla coscienza, in tema di delitto o di peccato; quasi a stigmatizzare in anticipo il caso di Guido da Montefeltro ricordato da Dante.
Francesco è l unico santo che prevede la disobbedienza in nome della Regola e dell anima cioè di due “norme” che hanno come autore il “Fuori sistema”, e cioè Dio cui bisogna ubbidire prima che agli uomini.
Infine, l ottimismo esistenziale e la filosofia della rivoluzione permanente di Francesco si riassumono nel Dettato della “perfetta letizia”.
Il primum della vita cristiana non è – come si dice – la ricerca della felicità, ma la “gloria di Dio” o l attuazione del Regno, quale che ne sia il prezzo da pagare. La tristezza consiste nei constatare che non è ancora nata una ecclesia in cui si annulla colui che fa soffrire l altro in nome dei proprio egoismo o della propria “felicità”. In questo caso, la sofferenza, oltreché essere figlia di classismo, diventa un fine senza sbocco alcuno nella salvezza. La “perfetta letizia” sanfrancescana non risiede – come qualcuno ha pensato – nel freddo pungente dei ghiaccioli fioriti sull orlo della tonaca o nei colpi di bastone vibrati da un portinaio imborghesito; ma piuttosto nella soddisfazione interiore di essere a piombo, esistenzialmente, con l architettura del Regno. Breve: la perfetta letizia è una pazienza che ricompatta gli ideali della propria anima quando incontriamo sulla nostra strada il gusto borghese dei bivacco o quando aumentano i cacciatori di felicità perché diminuiscono i ricercatori di verità. Se questi sono i cardini portanti della “filosofia” di Francesco, non meno rivoluzionari sono i presupposti pedagogici della sua gestualità.
Egli celebra in maniera unica il distacco del dover essere sull essere. Programma in assoluta libertà interiore la propria esistenza e senza venature giansenistiche. Non si propone di essere migliore degli altri, ma di attuare ciò che Dio gli ha rivelato.
A un certo frate Giovanni, ex contadino, che si era proposto, nella sua semplicità, di fare tutto ciò che faceva Francesco, tossisse o sputasse, proibisce l imitazione passiva di modelli umani e sulla terra nuda di S. Maria degli Angeli dirà, ai suoi frati di fare ciò che Cristo suggerirà loro.
Si veste di saio e non beve acqua abbastanza per dissetarsi, ma non disprezza né giudica chi indossa vesti colorate o mangia cibi delicati. Gli aspetti ascetici della sua spiritualità sono, comunque, strumentali e mai elevati a fine o coltivati per se stessi. Si oppone a una Regola scritta in cui si dica che non si deve mangiar carne perché una simile esclusione è contro il Vangelo e rappresenta una discriminazione manichea e farisaica sulla realtà creata.
Se il corpo è definito “frate asino” è pur sempre un “fratello” e mai il luogo del peccato.
Nel Capitolo delle stuoie dei 1221 Francesco farà deporre sul piano erboso di S. Maria degli Angeli un “grande ponticello” di cilizi e strumenti penitenziali perché non voleva che si creasse confusione alcuna tra penitenza fisica e disponibilità totale (metanoia).
Il cilizio può essere indossato dal ben pasciuto beccafico o anche dal fachiro fantasioso; mentre il controllo costante della grazia sulla natura non ammette facili autoattestati di santità. Geniale nel suo aspetto scenico, fu la strategia da lui escogitata per liberarsi dalla tentazione del sesso.
In un primo momento segue la tradizione e si arrotola, come S. Benedetto, in un letto di spine; ma poi si accorge che le spine colpiscono la tentazione nelle sue conseguenze e non nella causa.
Costruisce, allora, i famosi fantocci di neve – che tanto diedero sui nervi a Voltaire – e con essi dialoga senza pudori, partendo dalle zone dell inconscio per risalire, di perché in perché, fino al pensiero di Dio che regge non solo la definizione, ma anche i finalismi di tutta la realtà.
E d altra parte Cristo stesso si libera dalle tre note tentazioni citando a Satana il vero pensiero di Dio (“Sta scritto”). In questo modo la castità che lo pone di fronte a S. Chiara, nell agape di S. Maria degli Angeli – agape che placò la generale curiosità degli abitanti di Assisi e di Betona nella scoperta di due anime avvolte dal fuoco della contemplazione – sarà praticata propter Regnum e cioè per costruirlo non per entrarvi.
I voti, insomma, non sono strumentali alla salvezza dell anima lassù, ma alla costruzione dei Regno quaggiù. Francesco è illuminista in quanto abbandona la tradizione “Non voglio, grida, che mi nominiate altre Regole, né quella di Agostino, né quella di Bernardo, né quella di Benedetto” -, ma è cristiano in quanto l abbandona in nome del Logos.
Se la chiesa cresce su se stessa, Francesco vuole crescere su Cristo e con ciò dichiara che il magistero della chiesa storica non può mai essere sostitutivo di quello di Cristo, relativamente all educazione del cristiano.
Francesco, infatti, vuol vivere secondo la forma del santo Vangelo e non secondo quella di “santa romana chiesa”. Se tra le due forme ci fosse adeguazione, ci sarebbe bisogno di riforme e non ci sarebbero in giro degli eretici, ma soltanto dei “persecutori”.
Il dissidio autorità-libertà è svuotato nel momento in cui Francesco sceglie di obbedire alla verità. All insorgente gerarchismo dell epoca egli oppone l intangibilità della libertà dello spirito: “dinnanzi a Dio – diceva – non c è distinzione di persona e il Ministro Generale dell Ordine, che è lo Spirito Santo, discende egualmente sul povero e sul semplice”.
Nella Prima Regola i membri della fraternità non hanno il diritto di esercitare fra di loro alcun potere o dominio. Tutti debbono sentirsi operai della vigna, senza rapporti “piramidali” (“Io comando tu obbedisci”!). Non a caso viene citato il passo dell Ultima Cena: “I Principi delle nazioni le signoreggiano”, per ammonire che “ciò non deve accadere tra i frati”.
Un potere esercitato tra fratelli che si uniscono per “praticare” il Vangelo è privo di senso. I frati debbono servirsi e ubbidirsi a vicenda, del resto qualcuno sarà sempre tentato di utilizzare l obbedienza a sé come arma di dominio.
Nella visione di Francesco, occorre diventare “servi e ad ogni creatura umana per amor di Dio”. Nessuno, quindi, deve farsi chiamare priore.
La stessa predicazione deve essere più servizio che parole e la testimonianza deve sempre prevalere sul potere decisionale.
Il cristianesimo deve essere prima praticato e poi predicato agli altri e mai in posizione dualistica.
Francesco ordina ai Ministri e ai Predicatori di lavorare come tutti gli altri perché non diventino, da capo, una classe privilegiata o i mestieranti del potere.
Il capolavoro socio-pedagogico della eguaglianza sanfrancescana, all interno della fraternitas, è il legame madre-figlio praticato a turno. Ammesso che la contemplazione sia coessenziale – come la priorità – al perfezionamento della persona, bisogna renderla possibile a tutti.
Ed ecco lo schema: se io contemplo tu mi nutri, se tu contempli io ti nutro. Infine: un frate minore non deve mai dimenticare che ognuno riceverà la mercede non secondo l autorità, ma secondo il lavoro svolto.
Per quanto attiene al rapporto con l altro, nella convivenza sociale, Francesco vede la giustizia come una forma suprema di trasparenza.
L altro deve conoscere ciò che produco, ciò che guadagno, ciò che consumo. Chi nasconde qualcosa al prossimo – e soprattutto al fratello di fede – e usa il cervello per produrre danaro mediante danaro, è già ladro e oppressore.
In forza di questa convinzione, Francesco, un giorno, dopo aver mangiato carne di pollo per ricetta medica, ordina a un confratello di legarlo con una fune al collo, di trascinarlo come un malfattore per le vie di Assisi e di gridare ai passanti: “Ecco un volgare ghiottone che ha mangiato carne di gallina a vostra insaputa”.
Nella civiltà cristiana esistono, crediamo, due specie di santità. Una che tenta in assoluto l attuazione del Messaggio e ad esso educa gli uomini; un altra che è l espressione più alta di un epoca storica e consuma le proprie energie per divulgare il cristianesimo così com è.
Ebbene, Francesco è quel raro cristiano – tanto raro da trovarsi sul filo dell eresia e della profezia – che incarna la prima specie di santità e ripropone, in definitiva, il fuoco prometeico introdotto da Cristo nel mondo per far crescere qualitativamente la specie umana.
Francesco più che un santo della chiesa cattolica è un uomo che mostra quale deve essere la perfezione di un cristiano per fare chiesa. Padre Aldo Bergamaschi